17 giugno 2000: esattamente venti anni fa la Rugby Roma saliva sul tetto d’Italia. Dopo una stagione esaltante, arriva la finale disputata allo Stadio Flaminio contro la corazzata dell’Aquila (7mila tifosi abruzzesi, circa la metà dei presenti, accorsi a Roma). Abbiamo voluto ricordare quella giornata indimenticabile, ultima tappa di un magnifico percorso partito da lontano, chiedendo qualche testimonianza a chi scese in campo facendo trionfare i colori bianconeroverdi.

Fabio Roselli, oggi tecnico della nazionale italiana Under 20, con la Rugby Roma Olimpic Club ha alzato la Coppa Italia nel 1998 e conquistato lo scudetto del 2000, ci racconta: "Eravamo una squadra molto bella ed equilibrata. Avevamo potenza con gli avanti, amavamo giocare il pallone anche negli spazi allargati: era un team che giocava e divertiva. Più di qualcuno sosteneva che non potessimo arrivare in finale perchè non giocavamo così bene in trasferta come in casa: la semifinale a Viadana dimostrò il contrario".

Sul condottiero che guidò la RROC 1930 alla vittoria, Roselli ricorda: "Gilbert Doucet amava raccontare storie e fare similitudini: nei giorni delle semifinali e della finale usava le gesta dell'esercito dell'Impero Romano per associarle a quello che facevamo come squadra di rugby. Queste storie ci unirono e contribuirono a darci una forza maggiore, aumentando la nostra consapevolezza in ciò che potevamo fare. Durante l'anno la visione del film Il Gladiatore ci ha accompagnato come rito, lo vedevamo a ogni trasferta. Per preparare la finale eravamo andati a dormire in un albergo in Corso Francia vicino lo Stadio Flaminio: il giorno prima ci portò in un campo a passeggiare, senza dirci assolutamente nulla. Quello che ricordo bene è che desideravo dare un contributo importante magari segnando due mete: mentre mi facevo le fasciature, sopra ci scrissi le due mete che mi auguravo di segnare. E alla fine le segnai. Eravamo molto carichi, appena entrati in campo ricordo benissimo gran parte dello stadio neroverde (i colori de L'Aquila, ndr): questa cosa ci ha quasi destabilizzati, ci ha ricordato che avremmo dovuto anzitutto giocare la partita come l'avevamo preparata per vincerla, prima di averla effettivamente vinta. Quindi il nostro obiettivo fu quello di segnare subito, imponendo il nostro gioco".

Ed ecco la previsione scritta sulle fasciature che si trasforma in realtà. "La mia prima meta fu lungo la tribuna del Flaminio proprio sotto i tifosi abruzzesi e questo ci diede il via. Durante il secondo tempo, L'Aquila ha provato a tornare in partita anche perchè noi abbassammo un po' la guardia. Poi su una palla calciata alta da noi, mentre l'allora giovanissimo estremo Masi si preparava alla ricezione, pensavo dentro di me che se avesse sbagliato un minimo la presa, avrei fatto la seconda meta. E così fu: ormai avevamo chiuso la partita, a coronazione di una stagione piena di entusiasmo che coinvolse staff, squadra e parte manageriale che fece un ottimo lavoro". 

“Gran parte del merito di quel successo, a mio avviso, è dell’allenatore Gilbert Doucet” sono le parole di Biagio “Sacha” Virgilio, terza linea ala di quella vittoriosa RDS Rugby Roma. “Quando arrivò, il coach francese Gilbert Doucet, ci cambiò (e mi cambiò) totalmente il modo di pensare a questo sport. Per loro il rugby è come una Bibbia, una disciplina religiosa. Tutti gli anni in cui ci ha allenati, la mischia non è mai uscita dagli spogliatoi per fare il riscaldamento pre-partita con il resto della squadra: il pacchetto di mischia eseguiva il riscaldamento negli spogliatoi, anche se erano piccoli e non ci si poteva muovere comodamente".

"Si liberava la parte centrale spostando borse, panche e ogni cosa fosse in mezzo per creare lo spazio giusto per muoverci. Per noi era un riscaldamento estremamente fisico, molto duro, anche motivazionale: da lì uscivamo come se avessimo già fatto un quarto della partita. Con Doucet, la mischia usciva dallo spogliatoio solo per andare a disputare la gara. Personalmente attribuisco gran parte del merito del tricolore al coach: un altro esempio è l’atteggiamento con cui andavamo in trasferta. Prima di allora, recarsi a giocare in casa degli avversari sembrava una scampagnata, ognuno faceva i propri comodi, si scherzava e si rideva. Con lui no, cambiò radicalmente tutto. Quando si partiva per le trasferte cominciavamo a pensare alla partita sin dal sabato o dalla fine dell’ultimo allenamento. Non si faceva mai casino, si poteva essere rilassati casomai solo dopo la partita, in caso di vittoria. Aveva la capacità di motivarti talmente tanto che anche una mezza pippa poteva diventare pericolosa, perché caricava tutti nella giusta maniera. Questo ha fatto la differenza: inoltre abbiamo avuto la fortuna di avere la squadra composta da molti romani, avevamo indubbiamente delle eccellenze straniere, ma c’era un cuore di Roma molto forte". 

"Doucet - racconta ancora Virgilio - prima della finale scudetto ci disse che in Francia disputò due finali in Francia e perse una delle due. Dopo anni, ancora provava un grande dispiacere e molto dolore per quella sconfitta. Ci fece capire che avevamo solo quella finale: probabilmente non ne avremmo mai giocate altre, con questo ci ha fatto capire molte cose. All'epoca aveva una cinquantina d'anni, tanto rugby alle spalle e col senno di poi del suo rugby vissuto ci disse: 'Ricordatevi che nella vita emozioni che si provano nel rugby che state vivendo non le proverete mai più: forse quando vi nascerà un figlio'. All'epoca ci veniva difficile capire e credere a queste parole. Ora che ho 46 anni confermo che quello che ci disse era vero. Io e altri giocatori abbiamo avuto e chiuso il percorso che ogni giocatore di club poteva volere: 3 scudetti conquistati con le giovanili, una Coppa Italia e lo scudetto... siamo stati bravi, ma anche molto fortunati ad avere avuto dirigenti come Speziali e Missori".

Un altro giocatore cresciuto nelle giovanili bianconere è stato Stefano Fortunato, mediano di mischia che negli anni recenti ha anche allenato la seniores della Rugby Roma, portandola alla serie B nel 2016. “La stagione dello scudetto è stata pazzesca, c’era un’alchimia unica tra società, staff tecnico e giocatori. Noi atleti ce ne siamo accorti fin dall’inizio che c’era un’unità di intenti per arrivare all’obiettivo, almeno per conquistare la finale. Domenica dopo domenica, mese dopo mese, la squadra cresceva sempre: ricordo perfettamente che il giorno della finale al Flaminio contro L’Aquila, al momento della consegna delle maglie non ho mai pensato un secondo che avremmo potuto perdere quella partita. Vedevo le facce concentrate e la tensione, la ferocia agonistica negli sguardi di ognuno dei miei compagni. Infatti, ci siamo portati presto sul 30 a 0 per noi chiudendo la partita. Ciò che mi rimarrà impresso nella vita, è quando dopo la partita ho visto la gioia nel volto del presidente Renato Speziali. Lui fu all’inizio un accompagnatore, poi diventò presidente della Rugby Roma. Per questo, avendoci visto crescere, era un amico per tutti noi, partecipe a tutte le vicende della società, dagli scherzi alle cose più serie. Quel momento, in cui ho visto gli occhi suoi e la sua felicità, rimane un ricordo indelebile, come si può vedere nella foto in cui lo portiamo in trionfo e io lo guardo pieno di felicità e riconoscenza”. 

Chi visse lo scudetto a fianco di Renato Speziali è suo figlio, Iko, che ha voluto raccontarci cosa ricorda di quella meravigliosa giornata.

"Non è facile ricordare quel 17 giugno di 20 anni fa. Ti posso però dire che quel giorno veniva da molto lontano: le vittorie non accadono per caso. Dietro c'è stato lavoro, passione, fatica, impegno da parte di tutti. Quel 17 giugno 2000 è stata la fine di un viaggio lungo e difficile. E assolutamente meritato. Ricordo che alla fine della partita nell'estasi più totale quando tutti si abbracciavano in lacrime, mi sono avvicinato a mio padre e gli ho detto: “Papà ce l'hai fatta, questo è tuo!”. Lui mi chiese quasi stordito: “Davvero? È mio?” Gli risposi: “A papà! Se questo non è tuo, dimmi, cosa mai sarà tuo?!” E ci siamo abbracciati forte".

"Per anni - ricorda ancora Iko - la RROC lo portava lontano da casa. Tutte le sere al campo per gli allenamenti, le partite (non solo della prima squadra ma anche delle giovanili). Da piccolo non capivo, anzi, un po’ ci soffrivo. Ma poi col tempo tutto mi è diventato chiaro: per lui era la vita, la passione per la RROC era di fondamentale importanza. Era una seconda famiglia. E sono davvero felice per lui che sia riuscito a vincere lo scudetto perché so che ha raggiunto un obiettivo primario della sua vita. Ha scritto nella roccia il suo nome e quello di tutti coloro che hanno voluto bene, e che ancora vogliono bene, alla RROC 1930. Questo per me è stato il 17 giugno 2000".

 

 

 

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